Ecco a voi la seconda parte della mia ricerca sulla casa dodicesima, pubblicata in origine sul sito di Eridano School.
L’esperienza umana della Dodicesima Casa
Il vissuto prenatale della dodicesima casa stabilisce un imprinting che ci accompagnerà per tutta la vita e caratterizzerà il nostro rapporto con la trascendenza; ma nel corso della vita, nella pratica, come viene vissuto questo settore? La tradizione l’ha definita come la casa delle grandi prove, delle disgrazie, delle malattie e dei ricoveri, dei nemici nascosti, dell’esilio e dell’alienazione, del servizio agli altri, della reclusione forzata, delle carceri e della prigionia, del sacrificio e così avanti. Descrizioni decisamente poco rassicuranti! In realtà non è – o almeno, non dovrebbe essere – niente di tutto ciò. La casa dodici è uno spazio sacro, intimo e silenzioso di devozione assoluta, in cui riportiamo al nostro Sé divino le esperienze che stiamo compiendo, trasformandole in consapevolezza spirituale; questo atto di “riconduzione” non riguarda solo le esperienze personali, ma porta con sé anche il vissuto, filtrato dalla lente del nostro essere, di tutti coloro che entrano in contatto con noi. Dal punto di vista psicologico, Jung definiva il Sé come l’insieme di tutti i fenomeni psichici dell’uomo, sia quelli consci che quelli inconsci, che ancora non sono entrati nel campo dell’esperienza; ma il Sé è qualcosa di più, poiché ha una valenza trascendente, divina, assolutamente inconoscibile e indefinibile; è ciò che l’induismo chiama ātman. Lo studioso Alain Daniélou lo descrive come un’istanza «che congiunge tutti gli esseri individuali» e che «costituisce un continuum indivisibile in cui gli esseri compaiono come entità coscienti individuali[…]. Tale immensità senza forma, substrato ultimo della coscienza, è sperimentata come vuoto, silenzio, oscurità totale nella regione senza limiti che spazia oltre lo spirito, oltre l’intelligenza. Essa è percepita dall’uomo, nell’interiorità del proprio essere, come un vuoto che è il suo ‘io’ più profondo, un io comune agli altri esseri, l’Oceano senza forma del Sé da dove emerge la natura particolareggiata di ogni individuo13». L’impegno che questa casa ci richiede è quindi di entrare senza paura in quel vuoto, in modo da ricontattare l’interezza dello spirito. Non si tratta, come a primo impatto potrebbe sembrare, di un’esperienza finale, estrema, che prelude alla conclusione della nostra vita corporea. Non è vero che la dodicesima casa si vive solo “alla fine”; Noi tendiamo ad assimilarla a quelle cinematografiche visioni post-mortem, in cui ci scorre davanti agli occhi la pellicola della nostra vita e finalmente “capiamo”. In realtà, chi ha davvero compreso la dodicesima casa, la vive attimo per attimo rendendo sacro ogni suo gesto. In questo senso è vero che siamo in un ambito di sacrificio, in senso etimologico di “sacro fare”. Possiamo viverla quando, uscendo dal lavoro, ci troviamo davanti a un meraviglioso tramonto e ci fermiamo per un istante, facciamo silenzio e ne accogliamo tutta la bellezza, lasciandoci commuovere, facendoci coppa per contenerne tutta la meraviglia e, al tempo stesso, schiudendo il cuore e lasciando che il nostro amore si riverberi verso lo splendore che l’ha suscitato. Possiamo vivere la dodicesima casa quando ci troviamo a fronteggiare una situazione che ci disgusta, ci avvilisce o ci fa indignare, e decidiamo di non reagire con il rifiuto, bensì cum-prendendola in noi, accettandola come parte della nostra anima e divinizzandola.
Anche in questo senso si può parlare di sacrum facere: sacrifichiamo il piccolo Io, con il suo orgoglio, le idiosincrasie e le barriere della personalità, per trasformarci in qualcosa di più ampio: una coscienza universale. Certo questa casa non è solo sublime bellezza; è vero che può imporre prove e rallentamenti. Ci viene chiesto a quanto di noi sappiamo rinunciare in nome dell’espansione della coscienza. Siamo disposti ad aprire l’anima per lasciar emergere parti del nostro essere che non conoscevamo? Quanto spazio vuoto siamo disposti a lasciare in noi per accogliere le vite degli altri, le loro mille diversità? Quante gratificazioni momentanee riusciamo ad abbandonare per risvegliarci alla nostra natura divina? Sono queste le domande che la casa impone. Bisogna ricordare che qui ci troviamo nella dimora del Sé e non è concesso alcun tradimento al nostro scopo di vita. Ecco perché a volte sulle persone con questa segnatura sembrano abbattersi calamità senza fine: è il Sé che rivendica il rispetto della sua volontà. “Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra”, non è la supplica a un fantomatico sovrano celeste, ma una dichiarazione d’intenti con la quale ci impegniamo a realizzare nella materia ciò siamo nello spirito. James Hillman disse che l’uomo, fin alla sua nascita, è una ghianda che contiene in sé la futura quercia; siamo un albero di cui la quarta casa può essere considerata l’apparato radicale e la decima casa l’apice. La dodicesima, invece, è la casa in cui siamo tenuti a donare i nostri frutti; nessuno può sbocciare solo per se stesso. Ma cosa accade se, a causa di condizionamenti esterni e deviazioni narcisistiche, la quercia si mette in testa di produrre fichi o nocciole? La frattura che si crea è lancinante e incolmabile, e allora sopraggiungono le malattie e quegli avvenimenti che ci confinano nell’isolamento forzato di cui parla la tradizione perché, come lo stesso Hillman disse, «ciò che serve, l’anima lo usa. Sono strabilianti, anzi, la saggezza e il senso pratico che essa dimostra nell’utilizzare accidenti e disgrazie14». Tutto pur di ricondurci al nostro progetto originale. Chi ha una dodicesima casa importante, tuttavia, raramente può limitarsi ad aderire alla sua vocazione senza porsi troppe domande sulla sua origine divina. Le Upanishad vediche recitano: «[Il Sé] può essere raggiunto da colui che gli si dedica; è per costui che l’ātman riveste il suo corpo. Colui che non ha rinunciato all’azione, che non ha trovato la pace, che non sa concentrarsi, che non ha ridotto il pensiero al silenzio, non può raggiungere il Sé con la sola forza dell’intelligenza15», ed è proprio questo che viene richiesto. Non si tratta di rinunciare del tutto all’esistenza terrena per immolarsi a una vita di ascesi – a meno che non se ne senta la precisa vocazione – , ma semplicemente di ritagliarsi degli spazi di solitudine in cui mettersi in ascolto dello spirito. Un’esistenza fatta di esteriorità e frivolezze mal si confà a chi è segnato da questo settore ed è molto probabile che, se ci si ostina a perseguire quella strada, sarà il Sé a sbarrarla con ogni tipo di impedimenti.
Nel “Codice dell’Anima”, Hillman scrive che «prima della nascita l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, ci dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino». Questo daimon è la voce del Sé, e riconnettersi a essa implica riconoscere il movente originario della nostra esistenza. A quel punto l’anima non ha più misteri per noi e la sua natura ci si rivela; non dobbiamo più domandarci la ragione di tante cose e anche gli eventi più drammatici si rivelano per ciò che sono: lo specchio terreno della nostra identità divina. I genitori che abbiamo avuto, gli imprevisti che ci sono accaduti, gli incontri fortuiti, gli amici e gli amanti che ci sono stati accanto, persino le malattie e le limitazioni fisiche, tutto acquista un senso inequivocabile alla luce di ciò che siamo chiamati a essere.
Non sempre, però, accettare tutto questo è semplice; bisogna prima aver superato una tappa precedente, che avviene in ottava casa e che gli alchimisti chiamano Opera al Nero. In questa fase dobbiamo lasciare che il nostro Ego si disintegri, e con esso l’illusione di essere immortali; siamo l’emanazione di un Sé eterno, è vero, ma la nostra personalità non è che un guscio caduco che siamo chiamati a rompere. È il momento in cui cessiamo di identificarci col solo corpo fisico (casa seconda) e per la prima volta ci rendiamo conto che dovremo morire. Così ha inizio la riunificazione al Sé; comincia a decomporsi il falso Io, quell’insieme di sovrastrutture mentali e automatismi emotivi che ci eravamo costruiti nella prima fase della vita, quando essere amati e protetti costituiva una necessità di sopravvivenza. A rigor di logica, in dodicesima casa questa tappa dovrebbe essere già superata, perché qui ci viene richiesto un passo successivo, la trascendenza dell’Io – quello vero stavolta. L’esperienza ci conferma però che la vita non è mai così schematica e che spesso le fasi di crescita interiore si sovrappongono. Si possono quindi sperimentare le energie della dodicesima casa anche durante la fase di nigredo, quando le ondate del dolore ci travolgono e la sola cosa che possiamo fare è star fermi e respirare per rimanere a galla, come un tronco trascinato dal fiume in piena. Questa condizione è ben rappresentata dall’esagramma n. 29 dei Ching, “L’Abissale”, che recita: «Se sei verace hai riuscita nel cuore, e ciò che fai ha successo. L’acqua scorre ininterrottamente e arriva alla meta. Così il nobile incede in durevole virtù, ed esercita l’arte dell’insegnante». Essere veri nel cuore significa riunirsi all’ātman, abbandonarvisi e conservare la nobiltà d’animo che un giorno ci permetterà di insegnare qualcosa agli altri: non per niente in questa casa troviamo i terapeuti e i guaritori. A quel punto, dal fondo del buio sorge qualcosa: la reminiscenza di una bellezza imperitura e onnipervasiva che si stende sul dolore come un balsamo e ci mostra la natura dell’amore incondizionato, che non ha oggetto, ma è oggetto di se stesso. Capiamo che per stare bene dobbiamo essere bene. I trigoni tra ottava e dodicesima casa possono confermare un intenso lavoro dell’individuo in questo senso; possono accendere una luce nel mezzo della cosiddetta “notte oscura dell’anima”. Non a caso il grande mistico San Giovanni della Croce, che rese questo concetto celebre attraverso la poesia e il trattato omonimi, aveva il Sole e Mercurio in ottava casa trigoni a Saturno e Marte in dodicesima. Nei suoi scritti si parla della notte oscura come di un periodo di intensa sofferenza da cui però emerge poi la serenità, trasformandosi in «notte pacifica, abissale e oscura intelligenza divina». Anche Santa Teresa D’Avila, la compagna spirituale con cui San Giovanni riformò l’ordine carmelitano, aveva un trigono tra le stesse case. È interessante notare il modo differente con cui i due perseguirono la trascendenza: Teresa, un passionale Ariete con Nettuno e Venere in dodicesima, seguì la strada dell’assorbimento meditativo per raggiungere il vertice estatico della comunione con Dio.
Al contrario il cammino di Giovanni, che in dodicesima casa aveva Saturno, fu quello di conservare una lucida consapevolezza e un’attenta disciplina che gli permise di penetrare la natura illusoria degli oggetti e del suo stesso corpo, fino a liberarsi dalla prigionia terrena.
Per poter gustare il tutto, non cercare il gusto in nulla. Per poter conoscere il tutto, non voler sapere nulla. Per poter possedere il tutto, non voler possedere nulla. Per poter essere tutto, non voler essere nulla
San giovanni della croce
In generale possiamo dire che se in dodicesima sono presenti pianeti morbidi, come Giove, Venere e Nettuno, è probabile che la persona trovi consolazione nella consapevolezza di essere emanazione di un’anima immortale, e viva con più coraggio la putrefatio dell’ottava casa. Se in quest’ultima sono invece presenti pianeti di fusione quali Luna e Nettuno, il distacco dalle dipendenze dell’Ego può essere più difficile; nel primo caso l’ostacolo maggiore è l’attaccamento al passato unito a una profonda paura dell’ignoto, mentre nel secondo caso ci troviamo davanti al rifiuto di affrontare la propria Ombra, che l’illusione nettuniana cerca sempre di eludere, trasfigurandola. Anche la presenza di pianeti duri in dodicesima, come Saturno, Plutone e Marte, può rendere restii ad abbandonarsi all’oceano del Sé. Non dobbiamo mai dimenticare, però, che ogni segnatura astrologica ha una precisa ragione d’essere ed è lo strumento che noi abbiamo scelto. Per cui, chi abbia Plutone in dodicesima – per fare un esempio – saprà che la via per aprirsi al Sé è una radicale trasformazione interiore, a cui seguirà l’attivazione di un intenso potere psichico che andrà messo al servizio degli altri. Di solito con Plutone si parla di potere personale, ma quando il pianeta è in case collettive quali l’undicesima e la dodicesima non può esserci più nulla di personale; qui il potere diventa l’unione che fa la forza e va esercitato nell’ottica di una trasformazione globale. È come se le persone con questo aspetto natale si facessero promotrici ed esecutrici del profondo bisogno di trasformazione che hanno percepito nell’umanità; in qualche modo sono in grado di estendere agli altri gli effetti benefici del lavoro di integrazione dell’Ombra.
Se la dodicesima casa potesse essere estrapolata dalla sua dimensione psicologica e condensata in un oggetto concreto, la cosa più adatta a rappresentarla sarebbe una vasca di deprivazione sensoriale. Si tratta di uno strumento inventato negli anni cinquanta dal dr. John Lilly con lo scopo di annullare ogni stimolazione degli organi di senso. Funziona così: ci si immerge in una vasca riempita con un liquido isotermico, composto da solfato di magnesio, in cui si galleggia in assenza di sensazioni tattili e di gravità; un coperchio impedisce il passaggio della luce e funge da isolante acustico. In questa condizione di profondo rilassamento, il cervello si sposta su onde theta e delta ed entra in un profondo stato onirico. Si presentano ronzii e lampi di luce, possono manifestarsi delle visioni e i confini del corpo sembrano espandersi indefinitamente. É uno stato di sospensione ancora maggiore rispetto a quello vissuto nell’utero e può indurre stati alterati di coscienza molto simili a quelli raggiunti con la meditazione o con l’uso di droghe sciamaniche. Dall’utilizzo di questa vasca è nata persino una terapia per combattere stress e tensioni muscolari, chiamata “Floating Therapy” (Terapia del Galleggiamento). Le sedute durano dai trenta ai sessanta minuti e il corpo, privato di ogni sensazione tattile, si rilassa completamente senza aver bisogno di variare la sua posizione; inoltre i dolori acuti possono essere ridotti o alleviati, mentre quelli cronici diminuiscono per qualche ora, riducendo la necessità di analgesici. Durante queste sessioni il cervello rilascia le endorfine, pertanto la terapia può essere utile per trattare disturbi del sonno e dell’umore, nonché un efficace coadiuvante della psicoterapia per la gestione di ansia e rabbia. È molto interessante ascoltare i racconti di chi si è sottoposto alla Floating Therapy, perché sembra di ascoltare una perfetta descrizione della dodicesima casa. La prima cosa che tutti riferiscono è di aver avuto l’impressione di tornare nel ventre materno; si sono sentiti protetti, coccolati, cullati. Alcuni hanno parlato della sensazione di fluttuare nello spazio, in un vuoto cosmico senza confini. L’unico suono che si sente è quello del respiro unito al battito cardiaco, amplificati dall’assenza di suoni esterni. Ogni coordinata spazio-temporale svanisce; non si sa dove ci si trovi, né che posizione abbia assunto il proprio corpo. Da una delle tante testimonianze presenti nel web si legge: «Dopo un tempo non quantificabile e non percepibile, perché il concetto di tempo ha perso significato, provo una sensazione di fusione totale. Non ho più nome, né tempo, né forma fisica, né memoria. Sono morto e questo non mi preoccupa affatto. È come se la morte fosse un concetto creato dalla mente vigile che in questa condizione non ha più senso. Fuso con ogni cosa, una dimensione eterna, senza spazio e senza tempo». Altri ragazzi, che hanno realizzato delle video-recensioni su youtube, una volta usciti dalla vasca hanno sperimentato una percezione incredibilmente ampliata delle vibrazioni sul corpo, come se il mondo non fosse altro che energia in movimento – e come dar loro torto? In effetti è proprio così. La cosa paradossale è che, concentrando l’attenzione su se stessi – ovvero sul proprio centro interiore, su quel Sé che sta oltre il corpo – ci si sente immediatamente connessi a tutto il resto del mondo; la paura della solitudine e dell’abbandono, che tiene molte persone lontane da questa esperienza, perde ogni ragione di esistere. Questo ci porta a uno dei compiti fondamentali richiesti dalla dodicesima casa: imparare a coltivare una feconda solitudine, facendo silenzio fuori e dentro di noi e abbandonandoci a una sana inattività. Le persone molto segnate da Luna e Nettuno – o anche dalle case quattro e dodici – hanno la tendenza naturale a essere inerti, passive, spesso sconfinando nell’indolenza; questa è una cosa naturale, perché la ricettività empatica che i due simboli sottendono presuppone cedevolezza, immobilità e dimenticanza dell’Io ordinario. Il problema è che noi non siamo mai davvero inattivi, né stiamo mai da soli con noi stessi. Anche quando trascorriamo un’intera giornata chiusi in casa, magari nel letto, tendiamo a occupare il tempo con mille piccole distrazioni: il cellulare, il computer, la lettura, la musica, la televisione; ci mettiamo a rassettare la stanza, a tagliarci le unghie, ci studiamo nello specchio chiedendoci se valga la pena cambiare taglio di capelli, oppure ci abbandoniamo all’immaginazione fantasticando su persone e situazioni. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la vera esperienza della dodicesima casa, che invece ci richiama alla pratica meditativa. La vera meditazione non corrisponde, come spesso di pensa, alla visualizzazione creativa, che di fatto è anch’essa una forma di attività. Il suo scopo è quello di mettere a tacere la confusione mentale, il continuo sciabordio di pensieri che inquinano la nostra mente.
Esistono fondamentalmente due tipi di meditazione: quella riflessiva e quella recettiva. La prima focalizza l’attenzione su un singolo oggetto o immagine, al fine di disciplinare la mente a mantenere la concentrazione; la seconda consiste invece nell’eliminazione di ogni pensiero, ripulendosi così dalle contaminazioni della mente incontrollata. Entrambe le vie portano allo stesso risultato, quello di estirpare la radice dell’ansia, dell’angoscia e la paura del vuoto, riconnettendoci al nostro intimo e ricordandoci, una volta per tutte, che c’è qualcosa di noi che non potrà mai essere alterato o corrotto; questo dissolve l’ansia di vivere, che nei nettuniani nasce di solito dalla paura che il mondo, imprigionandoli nella materia, uccida il loro spirito o ne inquini la virginale purezza – tipico caso di un’opposizione con la sesta casa.
Le persone con pianeti attivi in dodicesima – Sole, Marte, Giove, Plutone – sono tendenzialmente più portate alla meditazione riflessiva, perché possiedono la volontà d’intenzione in grado di focalizzarle su un singolo obiettivo. Luna, Nettuno e Venere, che sono più passivi, tendono invece a suggerire una pratica di tipo recettivo. Saturno si colloca nel mezzo, perché simboleggia la resistenza, la costanza e l’impegno che in entrambi i casi debbono essere applicate. Il più difficile da disciplinare è probabilmente Urano, che è imprevedibile, elettrico e bizzoso. Tende a passare da un’immagine all’altra senza soluzione di continuità e, dal momento che è un pianeta mentale, spesso rifiuta di lasciarsi permeare dal sentimento d’amore universale che la casa porta in sé; è proprio questo agape ad agire come un collante che tiene insieme le mille diverse realtà che abitano lo spirito. Urano ha poca dimestichezza con la sfera del sentimento e tende invece a lasciarsi sedurre dalle idee asettiche, similmente a Mercurio. Liz Greene, nel suo “L’arte di Rubare il Fuoco”, dice che il pianeta qui si comporta come un catalizzatore della psiche collettiva, e tende a trasferire sul nativo la responsabilità di un qualche tipo di diversità che per molte generazioni è stata ignorata e rifiutata; si tratta dell’eredità di un conflitto psichico, qualcosa che non è stato integrato perché il contesto sociale e familiare non lo consentiva. La sua origine può risalire ai nostri antenati o addirittura all’intera stirpe razziale. In generale a chi abbia questa posizione astrologica è consigliato un lavoro sull’albero genealogico, magari avvalendosi di tecniche come la meta-genealogia e le costellazioni familiari. Urano è molto legato al campo morfo-genetico teorizzato da Rupert Sheldrake, secondo cui tutti gli esseri viventi sono uniti da una rete invisibile che ne regola movimenti e interazioni, condizionandone anche l’evoluzione. Si tratta di pattern relazionali che, similmente agli schemi di aggregazione degli atomi, si tramandano da una generazione all’altra in modo automatico, facendo sì che i suoi componenti ripetano le medesime dinamiche relazionali finché qualcuno non sceglie di modificarle, spezzando la catena. Ogni singolo individuo è influenzato dallo schema della sua famiglia, la quale è a sua volta condizionata dallo schema della sua stirpe, che segue il destino tracciato dalla sua razza. Ogni razza è plasmata a sua volta dall’area geografica in cui è sorta, attraversata da precisi meridiani energetici, e l’insieme di queste coordinate fa capo all’essere senziente che è il nostro pianeta; la Terra stessa, essendo parte del sistema solare, è interconnessa al resto dei corpi in orbita intorno al Sole, che è solo un piccolo ingranaggio nel grande meccanismo della galassia, e così avanti, fino ad arrivare alla fonte. Queste simbologie sono comuni sia a Urano che alla dodicesima casa, e la sua presenza in quest’ultima potrebbe richiamare alla necessità, da parte dell’individuo, di rivoluzionare il pattern sistemico in cui è inserito.
Nettuno, che qui è nel suo domicilio primario, si esprime in aderenza alle simbologie classiche del settore, che possono essere a volte amplificate o distorte, a seconda degli aspetti e del resto del tema natale. Tutte le attività tipiche della casa sono favorite: il misticismo, la poesia, l’arte, la musica, l’attività umanitaria, la terapia psicologica, la guarigione, la medianità, e così via. In negativo, può esserci la tendenza a rifugiarsi in un mondo di fiaba. Se Nettuno è molto stimolato, il rischio maggiore è di non rendersi conto della realtà in cui ci si trova; a volte si pone un filtro rosa davanti agli eventi troppo dolorosi della vita, che così non vengono mai riconosciuti ed elaborati. È come se Nettuno attutisse gli allarmi di pericolo e impedisse di correre tempestivamente ai ripari, trasportando la persona in un paradiso artificiale di sogni dove nulla può ferire. Il pericolo, in questo caso, è di restare per anni e anni immersi in situazioni disfunzionali – il più delle volte relazioni – senza rendersi conto del male che stanno procurando. Si imbastiscono fantasie elaborate di ogni sorta pur di redimere la dipendenza emotiva agli occhi della propria coscienza. Non importa se l’uomo che amiamo ci tradisce, ci ignora e ci umilia: è legato a noi dal sigillo interstellare delle fiamme gemelle, e prima o poi capirà che siamo due metà della stessa anima. Non importa se stiamo sprecando i migliori anni della nostra vita nella più totale inattività: un giorno un maestro di luce si materializzerà nella nostra stanza e ci svelerà che siamo starseed provenienti da Andromeda con una missione divina da compiere. Non fa nulla se i nostri presunti amici ci cercano solo per convenienza e per chiederci favori: è il loro modo di dimostrare amore e inoltre, poverini, hanno così tanti problemi nella loro vita! Non è vero che da piccoli il papà ci picchiava, era solo un po’ rustico di modi. E quella promozione che ci siamo sudati e ci spettava di diritto? Be’, il capo ufficio ha fatto bene a darla all’altro collega, in fondo lui ne ha molto più bisogno, sua moglie ha appena partorito… Questo genere di scuse sono molto pericolose, perché abbattono la nostra auto-affermazione e ci sottraggono la grinta necessaria a raggiungere le mete prefissate.
Un Nettuno in dodiesima con buoni aspetti e ben elaborato, invece, può elargire doni preziosissimi che in certi casi sfociano nella genialità. È il caso di Nikola Tesla, acutissimo fisico, ingegnere e inventore serbo vissuto a cavallo tra la fine dell’ottocento e la prima metà del novecento. Tra le sue innumerevoli invenzioni troviamo la corrente alternata, la radio – il cui brevetto fu depositato diversi anni prima di Edison –, il controllo remoto, il laser, oltre a numerosi contributi nel campo dell’elettromagnetismo. Tesla aveva Giove e Nettuno in dodicesima casa, entrambi in aspetto al Sole. Nella sua carta del cielo sono prevalenti i valori d’Acqua: Sole e Venere sono in Cancro e in quarta casa, trigoni a Nettuno che oltre a trovarsi in dodicesima è nel suo domicilio primario, in Pesci. A questo aggiungiamo che in dodicesima è presente anche il Nodo Nord e che Saturno è anch’esso in Cancro. Giove in Ariete in quadratura al Sole gli ha invece donato un intuito fulmineo e divampante. Queste segnature amplificarono enormemente le sue doti visionarie, e per lui fu all’inizio piuttosto difficile condurre una vita serena. Nella sua autobiografia racconta di aver sofferto di depressione durante l’adolescenza a causa della continua apparizione di immagini, accompagnate da intensi lampi di luce, che gli impedivano la vista degli oggetti reali e interferivano col normale svolgimento delle sue attività. Tutti, al momento di chiudere gli occhi, siamo attraversati da visioni, di solito fugaci e sfocate; nel caso di Tesla queste visioni erano vividissime, tridimensionali e stabili. Questo gli permise successivamente di creare un sistema di elaborazione delle invenzioni basato esclusivamente sulla visualizzazione mentale; metteva a punto i suoi progetti lavorando direttamente sulle immagini mentali, alle quali apportava miglioramenti e revisioni, e solo successivamente passava alla realizzazione concreta: «Per me è la stessa cosa far girare la turbina nella mia mente oppure testarla nel mio laboratorio». Nel paragrafo sulla vita prenatale ho parlato di come la dodicesima casa, Giove e Nettuno, donino una connessione diretta con gli archetipi, in particolare quello del colore. Tesla conferma questa teoria e nei sui scritti troviamo descrizioni molto particolareggiate delle sue visioni: «Quando chiudo gli occhi vedo invariabilmente come prima cosa uno sfondo blu, molto scuro e uniforme, come il cielo di una notte serena ma priva di stelle. Dopo pochi secondi questo campo si anima di infinite fiammelle di colore verde, scintillanti, disposte in diversi strati che mi vengono incontro. Quindi appare sulla destra uno splendido motivo formato da due sistemi di linee parallele e molto vicine, che vanno formando un angolo retto tra loro, di tutti i possibili colori, con predominanza del giallo, del verde e dell’oro. Subito dopo le linee diventano più brillanti e tutto si riempie di puntini luminosi […]. Ogni volta, prima di addormentarmi, davanti ai miei occhi fluttuano immagini di persone oppure di oggetti».
Le sfide e le difficoltà della dodicesima casa
Sebbene la descrizione tradizionale della dodicesima come della casa delle prove e delle disgrazie sia parziale e inutilmente fatalistica, non si può negare che porti spesso con sé delle difficoltà oggettive. Il mondo esteriore, col suo corredo di luoghi, esperienze e rapporti, è soltanto il riflesso frammentato di una realtà interiore, che nella dodicesima casa viene ricomposta e ricondotta all’essenza. Per questa ragione, una volta approdati in questo campo, è necessario liberarsi di ogni referente esterno e ciò può essere doloroso se abbiamo ancora dei forti attaccamenti. Il modo di vivere l’esperienza dipende in gran parte da come sono state integrate le fasi precedenti, perché per tornare all’unità dobbiamo innanzitutto liberarci di tutte le proiezioni; queste, per essere smantellate, devono prima essere vissute e riconosciute, e solo successivamente ricondotte al Sé. Proiettiamo parti di noi non solo sulle persone, ma anche sui luoghi, gli oggetti e le immagini a cui siamo legati e che ci danno conferma della nostra identità. La frammentazione dell’unità ha inizio nell’asse prima/settima, in cui l’uno si scinde nel due, facendoci percepire noi stessi solo attraverso gli effetti che le nostre azioni hanno sugli altri (Marte). Sappiamo chi siamo perché l’altro ci mostra ciò che non siamo, ritroviamo il nostro Io nel riflesso che l’Altro ci restituisce (Venere). Nell’asse seconda/ottava ci identifichiamo prima con ciò che possediamo (Toro) e poi con ciò a cui siamo disposti a rinunciare, col seme che depositiamo nel mondo (Scorpione); troviamo noi stessi nel cibo, nel sesso, nell’intimità relazionale e nell’alternanza tra
unione e distacco. Nell’asse terza/nona proiettiamo la nostra identità su ciò che pensiamo (Mercurio) e in cui crediamo (Giove); viviamo attraverso le parole, i concetti e le informazioni (Gemelli) e per trovarci abbiamo bisogno di proiettarci nel futuro (Sagittario). L’asse quarta/decima sposta la proiezione sulle figure genitoriali; qui ci identifichiamo nelle nostre radici (Cancro) o nel ruolo che ricopriamo nel mondo (Capricorno). L’asse quinta/undicesima ci parla invece di un Io cosciente ormai strutturato, che si riconosce prima emanandosi all’esterno attraverso la creatività, la riproduzione e lo sfoggio di sé (Leone) e poi inserendosi all’interno di quel mosaico policromo che è la società, rendendosi parte di un disegno comune (Acquario); in quinta casa abbiamo anche l’innamoramento, che ci fa riconoscere nell’amato parti di noi che abbiamo rimosso, mentre in undicesima il rispecchiamento avviene con la collettività nel suo complesso. In sesta casa troviamo un’identità collocandoci all’interno delle gerarchie, etichettando e denominando le nostre componenti in rapporto agli altri; ci identifichiamo nel corso di studi che abbiamo scelto, nel ceto sociale di appartenenza, nella professione che svolgiamo, ma anche nelle prerogative della nostra fascia d’età e nell’essere un organismo biologico. Tutto ciò in dodicesima casa scompare. Svanisce ogni proiezione esterna e con essa si dissolve l’Io insieme al bisogno di riconoscersi in ciò che si pensa, si dice e si fa. Il processo inizia già in decima casa, con Saturno, quando cominciamo a riprenderci la totalità del nostro tema natale e smettiamo di proiettarne i vari frammenti; non possiamo più identificarci nel clan (Toro), nei figli (Leone), nei colleghi (Vergine) o nel partner (Bilancia). Oltre a recuperare le nostre proiezioni, dobbiamo anche spogliarci di quelle che gli altri trasferiscono su di noi: solo così possiamo capire chi siamo e andare verso la vera realizzazione. In decima tuttavia è ancora presente un forte senso di realtà, si è radicati nel presente e si lavora concretamente. In dodicesima anche questo viene a decadere. L’Io diventa Sé nel momento in cui ha superato la prova di Saturno, ovvero dopo aver ri-conosciuto lo scheletro della sua essenza, quello che di vita in vita si veste di personalità sempre diverse pur non cambiando mai. Dopodiché incontriamo Urano e Nettuno, che sono il nostro spirito collettivo, il collegamento con l’Anima Mundi. Urano ne rappresenta la parte mentale, il pensiero puro dell’iperuranio, mentre Nettuno simboleggia il sentimento che ci tiene uniti, il cuore sacro. Nettuno contiene in sé tutto ciò che abbiamo incontrato dalla prima all’undicesima casa23. Le Upanishad dicono: «Colui che conosce il vasto spazio racchiuso nella caverna del cuore, realizza tutti i desideri ed entra in contatto con l’Immensità24»: per arrivare a schiudere questa caverna è indispensabile superare delle prove. Dobbiamo essere in grado di sopportare la solitudine, tenerci saldi al nostro nucleo senza aggrapparci a nulla che stia all’esterno.
Questi temi sono rappresentati in particolar modo da Saturno in dodicesima casa, che a volte può indicare un vero e proprio isolamento fisico. Più sopra ho menzionato la figura di San Giovanni della Croce, che aveva quest’aspetto nella sua carta astrale: è vero che Saturno gli conferì la disciplina per meditare, strappando i veli dell’illusione uno a uno, ma è altrettanto vero che il mistico dovette affrontare prove piuttosto dure. Nel suo caso la simbologia “casa dodici-prigione” fu letterale: a trentacinque anni, a causa di feroci opposizioni contro la riforma da lui apportata nei carmelitani, fu accusato di ribellione e imprigionato in un convento di Toledo, in una cella gelida e talmente angusta che a stento lo conteneva. I mesi di prigionia furono durissimi: con una sola tonaca inzuppata dall’umidità e nient’altro che il suo breviario, Giovanni fu costretto a soffrire la fame, la febbre alta e i pidocchi, oltre alle sistematiche flagellazioni a cui era sottoposto il venerdì nel refettorio comune. Eppure fu proprio in quei terribili mesi che, sotto la luce che filtrava fioca dalle grate della cella, compose gran parte del suo “Cantico Spirituale”. Seppe convogliare gli senti nell’ispirazione, riconoscendo nella sventura una vera e propria prova iniziatica a cui si sottopose docilmente, direzionando tutte le forze verso la consapevolezza spirituale. Del resto è proprio questo che Saturno insegna: la concentrazione, intesa tanto in senso fisico quanto mentale. Come governatore del piombo alchemico, Saturno rappresenta la massima densità concentrata nel minor spazio possibile; è da questo stato di enorme pesantezza che viene tratto l’Oro dei filosofi. In dodicesima casa, tutta la concentrazione è rivolta all’apertura dei cancelli del Sé. Lo capì bene Emily Dickinson, che a trent’anni decise di segregarsi nella sua stanza per dedicarsi esclusivamente alla poesia e alla vita interiore, e non ne uscì fino al giorno della sua morte, dieci anni dopo. Scelse questo gesto come un lucido atto di ribellione verso le imposizioni sociali e il perbenismo della sua famiglia, che voleva imporle un destino e un’immagine che non le appartenevano. Saturno in dodicesima casa appartiene anche a personalità eminenti che hanno saputo fare della disciplina e della contemplazione una fune con cui risalire le vette impervie della conoscenza: Schubert, Hegel e Goethe, per citarne soltanto tre; musicisti eccezionali che hanno saputo usare questo aspetto per creare opere immortali. I doni che la casa offre sono sempre gli stessi: i pianeti presenti suggeriscono semplicemente le modalità con cui questi potranno essere conquistati. Abbiamo così persone che si dedicano con intensità agli impegni umanitari, come nel caso del frontman degli U2 Bono, ma anche uomini che rinunciano a una vita convenzionale fatta di piaceri egoistici per dedicarsi allo sviluppo della società, come nel caso del padre dell’informatica Alan Turing. Certo, nel suo caso Saturno in dodicesima fu anche foriero di una fine tragica, dovuta al doloroso senso di diversità che gli impediva di sentirsi amato e accettato dal resto del mondo: morì infatti suicida a soli quarant’anni a causa delle persecuzioni subite per via della sua omosessualità. Una fine analoga fu scelta da Sylvia Plath, che si tolse la vita a soli trent’anni respirando il gas del forno di casa sua. La poetessa americana si impose per tutta la vita una rigida disciplina che la sua potente emotività da Scorpione continuava a osteggiare; credeva che ogni emozione, persino la più feroce, dovesse essere sistematicamente sviscerata e imbrigliata attraverso l’atto poetico. Fu sempre molto attratta dall’esoterismo e dall’astrologia, ma se ne tenne a debita distanza per paura di leggere nella sua carta natale la conferma di un tragico destino – «Dal fondo dello stagno, stelle fisse governano una vita», scrive in “Words”, una delle ultime quattro poesie composte pochi giorni prima della sua morte. Non riuscì mai a chiudersi nella feconda solitudine che Saturno in dodicesima le avrebbe regalato, fatta eccezione per gli ultimi due anni della sua vita, trascorsi in una villa sperduta nel Devon inglese, durante i quali si svegliava all’alba per scrivere in silenzio. Anche la Plath visse una forma di reclusione forzata: nell’inverno del suo suicidio, trasferitasi con i figli piccoli in una casa di Londra, fu colta da una terribile gelata che la isolò dal resto del mondo, tagliando la corrente elettrica, la linea telefonica e bloccando strade e trasporti. Questo era senz’altro un fatto comune in passato, ma nel caso della Plath andò a peggiorare una condizione psicologica già molto a rischio e, probabilmente, il senso di prigionia andò a riflettere la sensazione, più profonda, che la vera guarigione dello spirito le fosse preclusa. In genere le persone con questa posizione di Saturno non riescono ad abbandonarsi passivamente al Sé, lasciando che l’Io si dissolva. Spesso temono il dolore psicologico e la contaminazione emotiva. Hanno bisogno di raggiungere da sole, attivamente, il risveglio della coscienza e possono giungere a gesti estremi pur di mantenere il controllo sulla loro anima. Non accettano di sottoporsi a eventi che possano corrodere la struttura della loro identità; Saturno, in fondo, porta sempre con sé il tema del controllo. Naturalmente questo controllo, se mal gestito, può essere preso in mano dagli altri e usato a nostro danno, come nel caso di Anna Bolena che alla fine fu giustiziata da suo marito: nel suo caso Saturno, che era quadrato al Sole di nascita, prese le sembianze di Enrico VIII.
Un’altra caratteristica della dodicesima casa è che può farci sentire irrimediabilmente
diversi, alieni, come se appartenessimo a un’altra dimensione, e questo può spingerci a isolarci, fuggendo da un mondo che sentiamo troppo violento e spietato per noi; le percezioni ampliate che dona questo settore – in concomitanza con valori d’Acqua nel tema natale – possono diventare una maledizione, perché siamo continuamente invasi dalle emozioni degli altri, che non riusciamo a distinguere dalle nostre. Spesso chi ha questo settore sovra-stimolato è colto da emicrania, vertigini, spossatezza e nervosismo quando si trova in ambienti troppo affollati, specialmente se si tratta di situazioni di forte agitazione collettiva e, dal momento che il suo apparato emotivo fa facilmente in sovraccarico, ha bisogno di lunghi momenti di totale solitudine per ritrovare l’equilibrio. Il rischio di questa tendenza all’isolamento, però, è quello di disattendere al reale scopo della dodicesima casa, che è di farci portare i nostri frutti nel mondo. Questi frutti, che nella casa precedente si esprimono attraverso l’operato concreto nella società, qui sono doni del cuore, e corrispondono alla virtù teologale della Carità, che in simbologia alchemica appartiene all’Argento, il metallo della Luna. La carità non è, come la intendiamo al giorno d’oggi, l’atto di “fare l’elemosina”, bensì, etimologicamente, “avere caro”, provare benevolenza, amare il prossimo come parte di sé.
Le affinità con la Settima Casa
La dodicesima casa si trova in rapporto di quinconce con la settima. Il quinconce è un aspetto particolare perché, pur non essendo marcatamente disarmonico, presenta senza dubbio delle particolari difficoltà. Dal momento che si forma tra elementi tra loro non compatibili, necessita di un’elaborazione cosciente per funzionare in modo armonico. È come se rappresentasse una potenzialità in nuce che però, per essere espressa, va elaborata con uno sforzo mirato; si tratta di far cooperare qualità apparentemente distanti tra loro. Nel caso dei Pesci e della Bilancia, e delle rispettive case, l’obiettivo è quello di creare una comunicazione tra il sentimento e il pensiero. Il primo feconda il secondo, dandogli profondità e spessore, mentre il secondo esprime il primo tramite le idee e la relazione. Settima e dodicesima casa, infatti, hanno in comune proprio quella Jung definisce funzione Sentimento. Astrologicamente il Sentimento appartiene all’elemento Acqua ma anche a Venere, che ha il suo domicilio primario in un segno d’Aria, la Bilancia. La Bilancia, com’è noto, è il segno della relazione e la casa da essa governata è quella in cui sperimentiamo noi stessi attraverso i legami. Se consideriamo che l’Aria sta alla funzione Pensiero, ci renderemo conto che è proprio Venere, la relazione, il trait d’union tra le due cose. Questo perché in realtà è proprio il sentimento che presiede alla relazione, dandole senso, ed è un’istanza molto più razionale di quanto saremmo portati a credere. Certo, è vero che un sentimento “alto”, sincero e puro, non ha molto a che vedere con la convenienza utilitaristica – lato ombra dell’elemento Aria –, ma è anche vero che è pur sempre il pensiero a strutturare, organizzare ed esprimere ciò che sentiamo nel profondo. Personalmente, considero i sentimenti una versione più matura, profonda e radicata delle emozioni. Queste ultime sono volatili, legate al momento. La rabbia, la felicità, la tristezza, sono stati passeggeri che vanno e vengono, perché legate a circostanze
immediate. Il sentimento invece persiste, ci vuole molto di più per trasformarlo e sradicarlo. Proprio per questo si tratta di un’istanza tutto sommato molto più razionale di quanto si creda. Nello schema astrologico, con segni e case d’Acqua si assiste a un progressivo raffinamento delle emozioni in sentimenti. In Cancro abbiamo ancora l’emozione forte, dirompente, reattiva, legata al bisogno e alla difesa dell’Io; in Scorpione inizia un’opera catartica e dobbiamo discriminare tra i moti d’animo passeggeri e i sentimenti veri e propri, dei quali dobbiamo riscoprire il valore; in Pesci, infine, le emozioni si sono trasformate: l’Eros è diventato Agape, il Pathos si è convertito in Empathos, la passione in compassione. La settima casa è uno snodo decisivo nel processo, perché è solo grazie alla razionalità che riusciamo in questa discriminazione, che poi si raffinerà ulteriormente con l’esaltazione di Mercurio in Scorpione. Grazie a Venere riusciamo a sfoltire e alleggerire il marasma delle emozioni egoriferite mettendole in relazione con il prossimo. Ci rendiamo conto che un’emozione, per avere valore, deve anche trovare un riscontro esterno, essere condivisibile. Credo che si possa imparare molto sulla natura delle case semplicemente osservando la natura e i cambiamenti della luce nelle ore del giorno. Facciamo un piccolo passo indietro: sappiamo che il Sole e i pianeti, nel ruotare intorno alla Terra, seguono un percorso giornaliero inverso rispetto a quello delle case. La Terra infatti ruota sul suo asse in senso antiorario, e questa è la direzione che seguono i segni e le case; anche i transiti sul nostro tema natale seguono questa successione, andando dall’Ariete verso i Pesci e dalla prima alla dodicesima casa. I pianeti, al contrario, ogni giorno transitano dalla dodicesima alla prima casa, seguendo un andamento destrogiro. Se consideriamo il cielo come un simbolo dello spirito, e la Terra come simbolo del corpo, potremmo dire che la dodicesima è la casa prima dello spirito. Infatti ogni mattina il Sole sorge in casa dodici, come a volerci ricordare che l’origine della vita è squisitamente spirituale. L’ambiente soffuso, etereo e quasi balsamico del dodicesimo campo è il primo in cui ci troviamo immersi al risveglio, e basta osservare il cielo alle luci dell’alba per rendercene conto. L’aurora è un momento magico e mistico, e non a caso è considerata da sempre il momento ideale per meditare. È come se ogni giorno rinascessimo simbolicamente nell’unità. Il cielo al tramonto, quando il Sole è settima casa, fa un effetto simile. Pesci e Bilancia, infatti, hanno diversi punti in comune: se prendiamo in considerazione lo schema morpurghiano, entrambi vedono esaltato per trasparenza il governatore dell’altro; in Pesci abbiamo la trasparenza di Venere, mentre in Bilancia quella di Nettuno. Se invece usiamo lo schema tradizionale, troviamo ugualmente Venere esaltata in Pesci, questa volta in modo diretto. La presenza di Venere in dodicesima casa trova un curioso riscontro nel fatto che questa venga definita la stella del mattino e che sia visibile proprio in quel settore prima che sorga il sole, dopodiché sparisce alla vista e ricompare solamente al tramonto come stella della sera, in settima casa. In pratica è visibile dalla Terra soltanto quando si trova nel suo domicilio e nella sua esaltazione – iretta o per trasparenza, a seconda di quale schema usiamo. Di più; vediamo Venere quando entra
simbolicamente nel territorio di Nettuno. Sembra quasi che le due case, scambiandosi i domicili primari per trasparenza, vogliano ricordarci che la luce sorge e tramonta nel nome del Sentimento, sia esso amore cosmico o amore di coppia. Se su carta questo concetto può sembrare pura retorica leziosa, l’osservazione diretta lo conferma immediatamente, senza bisogno di parole e ragionamenti. All’alba e al tramonto la luce si fa calda, ambrata, quasi palpabile, come se avesse consistenza di oro liquido; la varietà di colori che si sprigiona nel cielo non è visibile in nessun altro momento: tinte fosforescenti e cangianti, giochi di rifrazioni sulle nubi, tonalità che si fondono tra loro in un gioco di sfumature che ricorda a volte il processo della marmorizzazione. Se interrompiamo l’attività frenetica e il mulinare dei pensieri, in quelle ore percepiamo chiaramente una sospensione che avvolge la Terra, un particolare silenzio che fa da sottofondo ai consueti rumori della. Per chi sa ascoltare con il cuore, anche nella metropoli più chiassosa, al tramonto, sembra di sentire per qualche minuto un silenzio sacrale.
Quando si trovano in queste due case, il sole e la luna si trasformano (Nettuno/metamorfosi); li vediamo dilatarsi, distorcersi, cambiare colore. È anche significativo che gli unici momenti in cui è possibile guardare il sole a occhio nudo si hanno all’alba e al tramonto, quasi che quelle ore sia possibile un contatto diretto con l’Io. Ogni volta che il sole transita in una delle case, è come se si congiungesse a Nettuno e a Venere, grazie ai quali può ricontattare il Sé. È anche come dire non possiamo conoscere direttamente la nostra identità finché non la mettiamo in rapporto con l’altro (settima) e con Dio (dodicesima). Questo ci riporta al profondo senso di pace e di guarigione interiore che proviamo quando siamo in relazione affettiva con qualcuno, che si tratti di una storia d’amore o d’amicizia, o nei momenti in cui
preghiamo, meditiamo o ci abbandoniamo all’arte.
L’essenza della Dodicesima Casa
Come ho accennato nell’introduzione, in fisica quantistica esiste un concetto che può far comprendere bene l’essenza della dodicesima casa: si tratta del principio di non località, secondo il quale le informazioni si trasferiscono istantaneamente da una particella all’altra. Facciamo un esempio: se dalla Terra inviassimo un segnale luminoso al pianeta di una stella lontana, ad esempio Proxima Centauri, questo dovrà viaggiare attraverso il tempo e lo spazio e impiegherà circa quattro anni per arrivare a destinazione; siamo nel campo della relatività generale e nell’ambito di Y-casa sesta: c’è separazione tra le cose. Nella comunicazione non-locale che avviene a livello subatomico, invece, l’informazione arriva istantaneamente. Se questo principio funzionasse a livello macroscopico, una luce accesa sulla Terra sarebbe immediatamente visibile su Proxima Centauri, perché le due sarebbero intimamente collegate. In astrologia il collegamento tra due punti avviene in settima casa – l’Io si connette all’Altro, nasce la linea retta. In undicesima casa il collegamento coinvolge tutti i punti che compongono la realtà; le linee rette si intersecano a formare una griglia. Qui abbiamo le reti neurali del corpo umano, ma anche la rete sociale, la rete informatica e in generale la collettività vista come un grande organismo modulare. In dodicesima il collegamento è ormai compiuto e miliardi di punti si fondono in un punto unico. È un po’ come guardare il cielo stellato di notte: noi vediamo tante scintille immerse nel buio perché la luce impiega del tempo ad arrivare sulla Terra e, dal momento che l’universo è in continua espansione, ci sono astri così lontani che il loro bagliore non ha ancora raggiunto la Terra. Se però la luce delle stelle ci arrivasse in modo istantaneo, non vedremmo più tanti puntini, ma un immenso chiarore abbagliante; il buio non esisterebbe più. In astronomia questo ragionamento è chiamata Paradosso di Olbers, e il fatto che non si verifichi è considerato una prova a favore del Big Bang. In dodicesima casa, invece, ci troviamo nel regno dell’ātman e questo accade davvero, anche se poche persone sono in grado di sperimentarlo fino un fondo: si tratta di un’esperienza talmente vertiginosa e totalizzante che può farci perdere la ragione, se non siamo in grado di sopportarne l’intensità.
La dodicesima casa ha un’ottava inferiore e un’ottava superiore, ovvero può esprimersi in modo più o meno evoluto, a seconda di come si sono integrati tra loro l’inconscio e la coscienza, le emozioni e la mente, la mente e il corpo, il corpo e lo spirito. Un concetto che esprime bene il funzionamento dell’ottava inferiore della casa è l’entropia: si tratta di un termine usato in vari ambiti, dalla termodinamica alla fisica quantistica, passando per la sociologia e la statistica. Semplificando all’estremo, possiamo dire che l’entropia è la tendenza intrinseca al disordine che ogni sistema possiede. L’entropia fa sì che tutti i componenti di un sistema si uniformino tra loro, annullando ogni differenza e classificazione tra l’uno e l’altro. Ad esempio, gli atomi che compongono i minerali possono formare strutture ordinate (i cristalli) o amorfe (mineraloidi); un minerale parzialmente amorfo molto conosciuto è l’opale: se lo
osserviamo, notiamo che i suoi colori cangianti e quasi fluidi richiamano bene alla mente la magia della dodicesima casa. Altro esempio molto comune è quello del ghiaccio che si scioglie in un bicchier d’acqua, oppure quello della goccia di inchiostro che si spande uniformemente in una bacinella d’acqua; in entrambi i casi un elemento si fonde nell’altro, perdendo la sua natura specifica. L’entropia si oppone al principio ordinatore della coscienza, simboleggiato da pianeti come Sole e Mercurio, e si verifica quando un sistema, abbandonato a se stesso, collassa nell’indifferenziabile. La confusionarietà di molti Pesci ne è una valida dimostrazione; a questo livello siamo incapaci di mettere confini tra noi e gli altri, e viviamo in uno stato di perenne confusione in cui idee, emozioni e sentimenti si rimescolano di continuo tra loro senza mai assumere una forma definita. È uno stato che sperimentiamo quando siamo nell’utero e nei primi mesi dopo la nascita, quando ancora non è sorta la coscienza a tracciare delimitazioni tra noi e tutto il resto. La paura di essere riassorbiti nel caos – o nel ventre materno – è un’angoscia atavica presente in tutti gli esseri umani, e può essere alla radice delle più disparate fobie, di cui la più comune è la classica paura del buio. La cosmogonia greca ci racconta che in principio esisteva soltanto Chaos, la Vorgine, il vuoto oscuro dal quale poi sorse Gaia, la Terra; successivamente la Terra partorì Urano, il cielo stellato e solo dopo che questo fu separato da Gaia poté sorgere la luce. In questo mito è possibile vedere un graduale ordinamento della realtà, che procede da uno stato di entropia a uno stato di sintropia, cioè di differenziazione ordinata. Chaos e Gaia rappresentano entrambe il principio femminile, e possono essere assimilate rispettivamente agli elementi Acqua e Terra. Urano è l’Aria, il pensiero puro, mentre la luce è naturalmente il Fuoco, il Sole. La coscienza, quando non ha ancora terminato di svilupparsi, nutre un’innata paura nei confronti di quell’oceano indifferenziato che è il caos, e non a torto: sentiamo istintivamente che, se tornassimo nel vuoto prima di aver compiuto la nostra individuazione, saremmo annientati per sempre. Molti scrittori segnati dalla casa dodici hanno descritto in modo sbalorditivo l’angoscia primaria del caos. Emblematiche in tal senso sono le pagine finali di “Cent’anni di Solitudine” di Marquez, in cui la grande casa di famiglia, che un tempo prosperava, cade lentamente in rovina divorata dalle formiche mentre Aureliano, l’ultimo della stirpe, termina di decifrare un libro profetico che contiene tutta la storia della sua genealogia, compresa la profezia della sua stessa fine:
[…] tuttavia, prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perché era previsto che la città degli specchi sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell’istante in cui Aureliano Babilonia avesse terminato di decifrare le pergamene.
G. Garcia Marquez, cent’anni di solitudine
Anche nella sezione centrale di “Al Faro” di Virginia Woolf, intitolata “Il Tempo Passa”, troviamo una descrizione simile. La villa al mare della famiglia Ramsey cade in abbandono dopo la morte della madre, e viene lentamente corrosa dalle intemperie. Queste pagine, lette in modo analogico, rappresentato un enorme tesoro di conoscenza per chi voglia approfondire i rapporti tra dodicesima e sesta casa, tra Nettuno e Mercurio, tra coscienza e inconscio:
Spente tutte le luci, tramontata la luna, con la pioggia che batteva leggera sul tetto, cominciò un diluvio di tenebra immensa. Niente, sembrava, si sarebbe salvato dall’inondazione, da quel profluvio di oscurità che si insinuava nelle serrature, entrava in ogni fessura […]. Non solo i mobili erano scomparsi; non era rimasto quasi nulla del corpo e della mente, perché di qualcuno si potesse dire “è lui” o “è lei”»
Qui la scrittrice descrive la casa solitaria nella notte, come se indossasse gli occhi di un visitatore invisibile che vaghi per le stanze mentre tutti gli altri giacciono nella sospensione del sonno. È l’ultima notte di villeggiatura e qualcosa nell’aria si fa presagio dei lunghi anni di assenza che verranno.
La casa rimase abbandonata, non ci andò più nessuno. Rimase come un guscio di conchiglia lì sulle dune a riempirsi di grani di sale, ora che la vita l’aveva lasciata. Una lunga notte sembrò impossessarsene; […] La pentola s’era arrugginita e la stuoia distrutta; un cardo si infilò tra le mattonelle della dispensa. Le rondini fecero il nido in salotto, il pavimento si ricoprì di paglia; l’intonaco cadeva a palate.
. Siamo in piena dodicesima casa, ma nell’ottava inferiore: non c’è unione né compiutezza, ma soltanto assenza di senso, vuoto, sfacelo – è il fallimento del principio di individuazione. Dieci anni dopo però la casa viene riaperta dalle domestiche, che la preparano per il ritorno della famiglia.
Poi di nuovo scese la pace; tremò l’ombra e la luce si piegò in adorazione della propria immagine sulla parete della camera da letto. Ed ecco che la signora McNab, strappando il velo del silenzio con le mani che erano state nella conca del bucato, calpestandolo con i piedi che avevano fatto scricchiolare la ghiaia, entrò per aprire le finestre e spolverare le stanze.
È come se la Woolf ci mostrasse distintamente la spinta entropica della dodicesima casa – che nel suo tema era iperstimolata – che viene contrastata dall’azione ordinatrice della sesta.
Lentamente e a fatica, con scope e secchi, la signora McNab e la signora Bast fermarono la decomposizione e l’imputridimento; salvarono dalla pozza del Tempo, che veloce si richiudeva intorno a loro, qui una bacinella, qui una credenza.
L’esattezza dei termini usati è quasi sbalorditiva: finiti di lavori di ristrutturazione la pace viene restaurata, l’ordine trionfa e risorge la coscienza. «Intanto che spazzavano e sbattevano, un parto faticoso sembrò avvenisse»: siamo entrati nell’ascendente, la nascita.
In dodicesima casa bisogna trascendere l’Io, ma non annientarlo; se quest’ultimo non è stato ben vissuto, ciò che ci aspetta è solo angoscia e confusione. Proprio per questa ragione l’ombra della dodicesima è la paura del vuoto, l’ansia, l’angoscia: è il terrore di perdere se stessi; chi non vive davvero la vita nella sua pienezza teme fortemente la dissoluzione, perché nel profondo sa bene che non avrà mai una seconda possibilità: quel particolare Io, nato in quel corpo specifico e con determinate caratteristiche, non tornerà mai più in vita. Nella dodicesima casa prenatale possiamo individuare un punto di partenza relativo: lì abbiamo il presentimento del viaggio dell’eroe che andremo poi a compiere in vita, realizzando il nostro Sole. Qui c’è già tutto, ma in mezzo a questo Tutto brilla il Sé, che nel momento dell’annidamento nell’utero si trova impigliato in un groviglio di possibilità, incrostato di memorie collettive e genetiche, e dovrà poi essere pescato dalle acque dell’inconscio per essere ripulito e reintegrato. Questo avverrà lungo il 26. Woolf V., Al Faro, Milano, Mondadori, 1994
percorso delle dodici case. Torniamo poi allo spirito e all’unità portando in dono al nostro Sé un tesoro prezioso: quello di un’esperienza unica, la visione personale di un particolare scorcio di verità che solo noi, col nostro corredo genetico e la nostra speciale qualità di vibrazione, potevamo catturare. I mistici dicono che noi siamo i sensi di Dio. Come l’occhio è programmato per inviare al cervello una specifica forma o colore, come il polpastrello è strutturato per captare informazioni tattili che saranno poi tramutate in sensazioni, così noi siamo fatti per riportare a Dio gli assunti del nostro Io, ovvero il risultato del percorso di individuazione.
Tutto è dentro di noi. Siamo cristalli colpiti dal sole, che rifrangono intorno a sé bagliori di luce rossa, gialla, azzurra, violetta, e così via. La luce solare è lo Spirito, l’Ātman, il Sé superiore scaturito direttamente dalla sorgente – possiamo chiamarla Dio, l’Uno o in qualsiasi altro modo. I bagliori che ci circondano sono le persone e le situazioni che incontriamo nella vita: sono all’esterno, ma provengono tutte dal centro di noi. La domanda che a questo punto sorge spontanea è: allora siamo soli al mondo? Tutti quelli che conosciamo non sono che proiezioni illusorie? Questo non è del tutto vero. Le persone che ci circondano sono altrettanti cristalli e come noi riflettono, nel loro modo unico e personale, la luce, scomposta in mille raggi colorati. Sono questi i raggi a incontrarsi e a interagire tra loro, non le nostre vere essenze – ovvero i cristalli. Il dramma della solitudine essenziale umana è proprio questo: ciò che possiamo toccare degli altri sono soltanto i riflessi, non il diamante che li produce; del resto, se pure due diamanti potessero toccarsi, cosa farebbero se non cozzare l’uno contro l’altro e scalfirsi, compromettendo così la propria capacità di
rifrangere la luce? In dodicesima casa impariamo questo; dobbiamo proteggere il nostro cristallo e volgere lo sguardo non verso le ombre luminose che proiettiamo, ma verso quel punto interno in cui la luce – il Logos – si incontra col nostro nucleo accoglitivo – l’anima – sprigionando da sé un caleidoscopio di colori. È che è lì che troviamo la vera unione con il resto del mondo; il cristallo è solo il supporto materiale che ci consente di elaborare la luce in modo personale. Questa condizione è vissuta meglio o peggio a seconda di come siamo identificati. Chi è segnato da valori nettuniani, pescini o di dodicesima casa, tende a identificarsi esclusivamente con l’incorporeità della luce. Il Pesci involuto si identifica con i bagliori variopinti che proietta all’esterno, il Pesci evoluto si identifica nel raggio solare che lo colpisce dall’alto, ma in entrambi i casi si tende a dimenticare che il cristallo ha bisogno di essere preservato e lucidato, per compiere la sua funzione. Fuor di metafora, il corpo ha bisogno di cure e manutenzioni, deve essere regolarmente pulito, allenato e ben nutrito. Il nettuniano rifiuta di accettare di essere anche il suo corpo perché sa che ciò equivarrebbe ad ammettere a se stesso la condizione di solitudine che deriva dall’essere confinato entro un guscio solido. È invece l’opposta Vergine a identificarsi con la consistenza dura del cristallo, e la similitudine è pressoché perfetta: come un diamante, la Vergine ha bisogno di essere lustra, purissima, priva di qualsiasi inclusione e impurità; per riflettere nitidamente la luce vuole essere solida, incorruttibile, raffinata e levigata secondo delle geometrie perfette. La sua pecca sta nella tendenza a dimenticare il valore della luce che riflette, che spesso reputa troppo astratta e inconsistente, e che è invece l’unico vero scopo per cui ci è stato offerto in dotazione un cristallo che possa rifrangerla.